venerdì 23 luglio 2010

Danilo Gallinari - Videoclip Sportitalia 10/06/2010


Una clip video sull'ala dei New York Knicks, Danilo Gallinari, andata in onda il 10 giugno scorso come apertura allo speciale con ospite lo stesso Danilo su Sportitalia.

sabato 17 luglio 2010

"Nicolò Melli - Testa e Tecnica. Ecco il futuro di Milano" di Daniele Barilli

Il neo acquisto dell'AJ dimostra più di 19 anni. E dice che il fratellino Enrico è meglio di lui...

Reggio Emilia La prima volta che il suo nome finì sui giornali era piccolo così. Aveva 13 anni, Nicolò Melli, quando indossò la maglia della squadra della sua città, Reggio Emilia, per una partita di serie A. Ottobre 2004. Lo convocò coach Fabrizio Frates che disse: «Se ho bisogno di qualcuno, chiamo uno bravo: l'età conta poco». Il quelle parole era già scritto il destino di Melli. Uno di quei rari talenti a cui non manca nulla per diventare campioni. E d'altronde la stoffa da cui è stato «ricavato» è di altissima qualità.

Genitori Papà Leo ha giocato per anni nella Pallacanestro Reggiana, arrivando fino alla serie B. La mamma, Julie Vollertsen, è stata una dei pilastri della nazionale statunitense di volley, argento olimpico 1984. Proprio dopo quell'Olimpiade, la Vollertsen arrivò a Reggio per giocare e conobbe Leo Melli. Nicolò è cresciuto in una famiglia di sportivi che gli hanno permesso di riconoscere ed esprimere al meglio il suo talento. Dandogli consigli importanti. E così, già a 16-17 anni, quando mezza Italia cominciava a parlare di lui, ogni volta che qualcuno gli chiedeva se queste attenzioni non gli davano fastidio la sua risposta era: «No, assolutamente: anzi, è un piacere. Le responsabilità non mi spaventano.» Sembrava di parlare con un veterano. In effetti, anche se ha appena sostenuto la maturità al liceo Ariosto di Reggio («Mi aspetto un voto tra l'80 e il 90», confessa), Melli dimostra di essere molto più maturo della sua età.

Jordan A 19 anni ha già ricevuto gli elogi di Michael Jordan, dopo un camp. Ha già giocato, e decisamente bene, davanti al g.m. dei Lakers Mitch Kupchak. Ha già superato un infortunio gravissimo, lacerazione del legamento crociato anteriore del ginocchio sinistro. Ha già disputato partite uscendo dal campo applaudito da interi palasport. La prima volta a Jesi, maggio 2008, Nicolò aveva 17 anni e, causa un infortunio subito da Ben Ortner, si ritrovò titolare nella semifinale promozione decisiva. Chiuse con 16 punti, 15 rimbalzi e 27 di valutazione. Una prova che non bastò per regalare il successo a Reggio, ma che gli valse il posto da titolare. L'anno dopo, una partenza esaltate: a Brindisi 12 punti e 18 rimbalzi e con Varese 24 punti e 38 di valutazione.

Crac Una settimana dopo, l'infortunio al ginocchio. Poche ore per piangere poi il primo a riprendersi fu proprio lui. Disse: «Tornerò più forte di prima: ho chiesto di essere operato in fretta e mi rivedrete in campo a settembre.» Nicolò mantenne le promesse, lavorò tantissimo, sostenuto dalla famiglia e da tutta una città che faceva il tifo per lui, e ad agosto era pronto. Il suo ultimo campionato è stato buono (11 punti e 7 rimbalzi di media a partita) considerando anche gli impegni scolastici. Perché Nicolò a scuola è bravo quasi come in campo e ha già deciso che a Milano si iscriverà a Giurisprudenza alla Cattolica. Dopo l'Eurolega e, chissà, forse la Nba, il suo obbiettivo è di diventare avvocato. E se Milano acquista un gioiellino, Reggio si consola con il fratellino di Nicolò, Enrico, già convocato dalla nazionale Under 15. «Macchè uguale - dice Nicolò - Enrico è decisamente più bravo di me..

Da "La Gazzetta dello Sport" di venerdì 2 luglio 2010

martedì 15 giugno 2010

"Rolando Blackman Mr. Classe" di Pietro Scibetta

È stato per 13 stagioni una stella NBA, ha disputato 4 All-Star Game, è il miglior marcatore nella storia dei Mavericks e ha giocato nella nazionale Usa. Poi Rolando Blackman è venuto un anno in Italia e ha subito vinto lo scudetto. Non certo un caso.

Stile, eleganza, classe, carisma. Sono parole che si sposano perfettamente per definire idealmente un signore del parquet come Rolando Blackman.
Pulito ed efficace da giocatore, concreto e grintoso quando lavora in palestra, ora è "Director of Basketball Development" dei Dallas Mavericks e partecipa anche a camp di livello internazionale come l'ultimo RBK Eurocamp di Treviso.
Diciamo, anzi, che per il ruolo di allenatore sembra proprio avere il cosiddetto "physique du rôle".
"Il mio approccio al lavoro è sempre molto intenso - dice - mi piace entrare in campo carico, con la voglia di insegnare per trasmettere ai giocatori quella di imparare. Soprattutto insisto con i fondamentali: se hai talento e aggiungi dei buoni fondamentali, diventi un giocatore pericoloso".
Impossibile dargli torto, questo è l'abc di ogni allenatore che si rispetti.
E forse avrebbe da insegnare anche la cosiddetta "attitudine": parliamo di un personaggio da 18.0 di media in carriera in NBA, con una punta di 22.4 nella stagione 1983-84 in maglia Mavericks.
Guadagnava 255.000 dollari lordi - e se pensiamo che oggi per quella cifra firmerebbe per una formazione di medio livello in Serie A o per una squadra forte di LegaDue e che Marbury percepirà 40 e passa milioni di dollari nei prossimi due anni a New York, ecco, allora si ha davverlo la percezione di quanto il mondo sia cambiato.
Di "attitudine" ne ha avuta parecchio bisogno, come dice lui stesso, perchè quando ha deciso di porre fine a una esperienza NBA durata tredici stagioni, Blackman varca l'Oceano per approdare prima all'AEK Atene e successivamente, anno di grazia 1995, in Italia con l'allora ambiziosa Olimpia Milano, targata Stefanel.
Bei tempi?
"L'annata che vissuto a Milano è stata una delle più belle e intense della mia vita. Ho avuto come compagni dei grandissimi giocatori ma soprattutto delle persone eccezionali. Certo, venire in Europa è stata dura perchè ho dovuto lavorare su un modo diverso di posizionarmi sul campo e perchè ho dovuto imparare delle nuove regole, su tutta quella dei 'passi' [cosa comune, per la verità, a tutti gli americani d'Europa, ndr]. Riuscire ad adattarsi, sia per un americano in Europa che viceversa, è una questione di atteggiamento e di predisposizione a imparare".
Lo sa, Rolando, che quella fu l'ultima stagione in cui Milano ha vinto lo scudetto [conclusa da lui con 14.9 punti e il 41.6% da tre in 40 partite]?
"Certo, e ricordo con grande piacere i campioni con cui ho giocato: Nando Gentile, Gregor Fucka, Dejan Bodiroga, un tiratore straordinario come Flavio Portaluppi, un allenatore eccezionale come Bogdan Tanjevic: urlava spesso e volentieri ma il basket lo conosce, ho un grande rispetto per lui come coach".
Quasi tutti hanno smesso, ormai.
"Già, e avrei voluto assistere all'ultima di Dejan e unirmi ai tifosi di Roma per la giustissima standing ovation che gli è stata riservata. Lui è un campione in tutti i sensi, un grande del gioco. Dovete sapere che quando scelsi di giocare a Milano sapevo bene con che giocatori avrei avuto a che fare, ho sempre chiesto molte informazioni prima di firmare. Ed è chiaro che la presenza di atleti di questo spessore mi ha fatto facilmente dire sì all'Olimpia".
Tanto facilmente che...
"Sarei rimasto volentieri a Milano, ma il nuovo coach [Franco Marcelletti, ndr] probabilmente non mi conosceva abbastanza e visti i tentennamenti dei dirigenti ho deciso di cambiare".
Per seguire proprio Tanjevic in Francia.
"Scelsi di firmare per Limoges con Boscia, ma fu un errore. C'erano dirigenti come John Dearman e Didier Rose che mi raccontarono un mucchio di bugie, davvero delle brutte persone. Credo che Rose sia andato anche in galera in seguito. Comunque, dopo sei settimane di discussioni decisi che ne avevo abbastanza".
Parliamo ancora del suo nuovo ruolo nei Mavs. Oltre ad aver fatto il telecronista, come detto, ora è a capo del programma di "Basketball Development", ovvero...
"Ho l'opportunità di poter lavorare con i giovani che un domani arriveranno nella NBA e trasmettergli la mia esperienza. Mi diverto a fare l'allenatore, perchè ho la possibilità di continuare a restare in un mondo, quello del basket, che ho amato tantissimo per tutta la mia vita. Viaggio per tutto il mondo per conto dei Mavericks e vado a vedere i migliori talenti; il lavoro mi permette sia di stare sul campo che di occuparmi degli aspetti più legati al business della mia squadra".
Nel nome del caro, vecchio "global game".
"Credo che sia meraviglioso avere in NBA tutti questi giocatori giovani che arrivano da tutto il mondo a offrirci il loro talento, come Dirk [Nowitzki], Yao Ming e Andrea Bargnani. Il loro arrivo ha costretto gli americani, anche i giocatori, a pensare che non conta solo il fatto di essere nati a New York per poter ambire a essere giocatori importanti. Magari esiste un piccolo paesino in una nazione semisconosciuta dove cresce un ragazzo che è più forte di te".
Parliamo della NBA dei giorni nostri.
"A Dallas lavoriamo per vincere, anche se ovviamenti ci dobbiamo riprendere dal colpo da KO subito da Golden State negli ultimi playoff, che è spiegabile per una serie di fattori. Primo fra tutti il fatto che si trattava di una squadra che ci aveva creato problemi già in regular season, una struttura molto particolare. Poi forse siamo arrivati ai playoff con giocatori troppo riposati, fuori tensione agonistica. Le ultime gare di regular season abbiamo lasciato spazio a chi aveva giocato meno durante l'annata, un errore che non commetteremo di nuovo. Stavolta terremo tutti sempre carichi a livello mentale".
Anche perchè, in Texas, avete San Antonio che continua a guardarvi dall'alto in basso.
"Bisogna essere onesti: per tutti coloro che amano il gioco, San Antonio è una squadra fantastica, un modello da seguire. Giocano una difesa organizzata e intensa, muovono la palla, giocano dentro e fuori, si appoggiano su un grande lungo come Duncan e possono contare sull'imprevedibilità di Ginobili. Hanno giocatori intelligenti e preziosi come Bowen. Insomma, sono fortissimi".
Dicono che sono noiosi, però.
"Non è che tutti possono giocare come i Lakers di Magic Johnson - e poi il bel basket non è solo quello dello Showtime. A me loro piacciono per la consistenza e la solidità che sprigionano, alla fine bisogna intendersi su dove si vuole arrivare".
In che senso?
"Beh, se vuoi finire su quealche poster con una schiacciata basta poco, ma il discorso cambia se vuoi arrivare a baciare un trofeo".
Insomma, caccia agli Spurs!
"Dobbiamo tenere d'occhio tutti, per evitare altri scivoloni come contro Golden State. Ma quelli da battere sono loro".

Da "Dream Team" del Gennaio 2008.

mercoledì 9 giugno 2010

"Kobe Bryant Black Mamba" di Gloria Mattioni

Ha lo stesso soprannome di Uma Thurman (in "Kill Bill"), gioca nei Lakers di Los Angeles, a 31 anni ha già vinto 4 titoli Nba e guadagna 23 milioni di dollari a stagione. E se il basket non vi interessa, non importa: qui si parla del talento di realizzare i propri sogni (e far sognare)

Neanche un mese alle finali dei playoff di basket e a Los Angeles il termometro degli umori è impazzito. È tornato l'entusiasmo il 27 aprile, dopo la vittoria schiacciante dei Lakers contro la squadra di Oklahoma City. Partita epica (111-87), che li ha riportati in lizza come difensori del titolo. Questa storia però comincia prima, l'11 aprile, dietro le quinte di una partita invece persa, da dimenticare. Los Angeles contro Portland, Staples Center. Ma forse dovrebbe chiamarsi Kobe Temple, il tempio di Kobe. Una ragazza mi passa accanto sventolando un cartello: «Sono venuta da Cleaveland (città del rivale LeBron James, n.d.r.) per vedere il vero re dell'Nba». Un'altra, in coda al chiosco dei pop corn, abbassa le ciglia: «KO», dice la palpebra destra. «BE», conclude la sinistra. Intanto il cellulare continua a brillare, con gli sms delle amiche. «Toccalo. Ti prego. Fallo per me. Dimmi che è VERO». «Chiedigli di Vanessa, delle bambine». «Portami l'autografo o mio figlio non mi parlerà più». In effetti, preferirei cento volte guardare la partita da un posto in platea tra i fan, libera di emozionarmi, saltare in piedi e urlare, invece che dalla tribuna stampa in compagnia di stagionati, irreprensibili cronisti sportivi. Ma il dovere è dovere, e in fondo in platea ci sono stata, pochi mesi fa, per la partita mozzafiato contro Sacramento in cui Kobe infilò il canestro all'ultimo secondo utile (l'ha fatto già sei volte in questa stagione, tiro vincente e sirena finale).
Kobe Bryant ci piace. Molto. E non solo perchè, a trentun anni, ha già vinto quattro titoli Nba, è stato miglior giocatore nel 2008, due volte miglior marcatore, dodici volte All Star, medaglia d'oro alle Olimpiadi di Pechino. Kobe ci piace perchè fa sognare. Anche quelli a cui del basket non potrebbe importare di meno. Kobe sa sognare, ha realizzato il suo sogno. Senza bacchetta magica, ma con sudore e coraggio. Isolamento e ossa rotte.
Ma ritorniamo allo Staples, 11 aprile, dunque. Spogliatoio dei Lakers, prima della partita. Kobe, cuffie in testa e iPod nella tasca dell'accappatoio. Sparisce a farsi massaggiare per rappezzare i danni. Il ginocchio destro, sfasciato. Il gomito sinistro, anche. E poi l'indice della mano destra tanto massacrato da costringerlo a cambiare tecnica di tiro. Nell'armadietto ha lasciato calzini neri, maglione a striscie grigie e nere orizzontali, blazer nero e occhiali da sole enormi, neri. Nero, grigio, bianco. I colori che predilige quando non indossa l'oro e porpora della divisa dei Lakers.
Allo Staples (dove a tifare per lui vengono regolarmente Jack Nicholson, Denzel Washington, Cameron Diaz, Leonardo DiCaprio, i Red Hot Chili Peppers e così via) Kobe ci arriva regolarmente in Orange County in elicottero. Un lusso che può permettersi, con i 23 milioni di dollari di stipendio annuale. Cominciamo a parlare appena ritorna dal massaggio. Capisce l'italiano benissimo, grazie ai sette anni trascorsi in Italia quando suo padre, Joe "Jellybean", giocava nel nostro campionato (a Pistoia e poi a Reggio Emilia).
Per cominciare gli chiedo di autodefinirsi con un aggettivo. «Insaziabile. Sono sempre stato affamato di risultati. La motivazione al successo l'ho dentro. Da sempre». Quando parla, ti guarda fisso negli occhi. «È stata la pallacanestro a definire la mia vita. Ho ancora e sempre bisogno di approfondire, di raffinare la mia abilità trasferendo nel gioco tutto ciò che ho imparato come uomo. Perchè adoro vincere. Ne ho un bisogno quasi fisico. Ma non farei così tanti sacrifici solo per mettermi al dito un anello (il trofeo per chi vince l'Nba, n.d.r.) e andarmene in pensione imbottito di dollari. Non riuscirei a giustificare il tempo che porto via alle mie figlie. Quello che mi definisce è la volontà di raggiungere gli obiettivi con passione». Ammette di non prenderla bene neanche quando Vanessa, sua moglie, lo batte a Cranium, il gioco da tavola. «Kobe vuole essere il migliore. Alcuni lo trovano arrogante», dice Tex Winter, l'allenatore stratega dell'attacco a triangolo, che conosce Kobe dal 1999, quando Winter arrivò ai Lakers al seguito di Phil Jackson. «Ma soltanto perchè si rifiutano di vedere che cosa ha dentro».
Quello che Bryant ha dentro, viene da lontano. Dalla sua biografia sappiamo che nel 1989, a undici anni, viveva a Reggio Emilia. «E già sfidava chiunque nell'uno contro uno: era convinto di vincere», ricorda Brian Shaw, oggi assistente allenatore dei Lakers, che in quegli anni giocò una stagione a Roma. Ecco quello che successe in seguito: tre anni dopo Kobe torna a Philadelphia, dov'è nato, ed entra nella squadra della Lower Merion High School. Si alza alle cinque del mattino per allenarsi e rimane in palestra anche di sera, mentre i suoi compagni di scuola pensano al proprio look e alle ragazze. Vince il titolo statale e batte il record di punti segnati, che era stato stabilito dal leggendario Wilt Chamberlain. Poi, senza passare dal college, arriva la chiamata dell'Nba. Viene scelto dai Charlotte Hornets e ceduto subito ai Lakers, che prima di ingaggiarlo lo sottopongono a un provino: di fronte a lui Michael Cooper, uno dei migliori difensori della storia della Nba. Kobe se lo mangia. Secondo Jerry West, all'epoca general manager: «Il ragazzo ha più talento di qualsiasi altro giocatore». Continua così la leggenda delle sfide di Kobe. Uno contro uno, sfrontato e convinto di vincere sempre.
Anche ora che è un divo affermato, si alza alle sei ogni mattina, l'ora in cui altri suoi colleghi tornano a casa dai party. «Preparo la colazione alle bambine, le faccio ridere». I nomi di Natalia e Gianna, sette e tre anni, sono tatuati sotto quello della loro mamma, sul deltoide destro. Già, Vanessa, una presenza costante accanto al marito: si conobbero quando lui aveva 21 anni e lei 17, nello studio di registrazione dove lei ballava per un video musicale e lui, stella nascente dei Lakers, avrebbe dovuto registrare un album di rap che poi non venne mai fatto. Uscirono insieme per pochi mesi: Vanessa dovette finire l'high school privatamente, per evitare i paparazzi. Poi il matrimonio, nonostante la "scomunica" dei Bryant, che ritenevano lei troppo giovane per sposarsi. Ma quando nacque la prima bambina, ritornò l'unità familiare.
«Siamo in pace», sintetizza oggi lui. Pace? E il Kobe che vuole la guerra? Quello che solo la battaglia può placare l'insaziabilità? Fuori dal campo, spiega, è un altro, è proprio questa "pace" a ricaricarlo, rendendolo il guerriero invincibile del parquet.
Continuiamo la nostra conversazione alla fine di una partita frustrante. Kobe è deluso ma "incassa" con classe. Sa perdere, come i veri campioni. Gli racconto che in Italia circola una leggenda: dicono che alle elementari firmasse autografi ai compagni di scuola, sostenendo che un giorno sarebbero valsi una fortuna.
Ride. «Dicevo a tutti che avrei giocato nella Nba e sarei diventato un grande campione. Ma loro mi prendevano in giro. Ero l'unico ragazzino nero della mia scuola, e del mio quartiere, già fissato per il basket. Mi allenavo da solo, imitando le mosse che avevo visto in televisione e visualizzando il mio sogno: infilare i canestri della vittoria nei secondi finali, con gli spettatori che esultano gridando il mio nome. Il pallone da basket era il mio unico vero amico».
Trant'anni dopo, Kobe è orgoglioso del suo soprannome, Black Mamba (lo stesso di Uma Thurman in Kill Bill), e racconta: «La consapevolezza "black" per me è arrivata tardi. Essendo cresciuto in Italia, non credevo che la nostra gente potesse identificarsi con me. Poi arrivarono i momenti difficili (nel 2003 fu accusato di violenza carnale da un'impiegata d'albergo del Colorado: il caso venne poi dichiarato nullo dal tribunale, senza processo, n.d.r.) e proprio allora ebbi enormi manifestazioni di sostegno dalla comunità nera. Così mi sentii ancor più motivato nella mia parte di role model».
Gli chiedo che cosa vuol dire esattamente per lui. «Secondo me significa essere capace, e voler influenzare gli altri, a dare il meglio di se stessi. Un atleta di successo è nella posizione ideale per ispirare gli altri. Dobbiamo essere eroi, nella sconfitta come nella vittoria: tutto si svolge in diretta, sotto gli occhi degli spettatori, senza editing. Ci guardarono superare ostacoli, infortunarci e fare cose "impossibili". Cadere e rialzarci: il senso della vita. È quello che noi atleti possiamo fare anche fuori dal campo: aiutare a ricostruire altre squadre. Rafforzare la fiducia delle persone, ispirarle e osare l'impossibile».

Articolo del 15 maggio 2010
Un ringraziamento a Sofia Saponi e a Elisa Campana.