mercoledì 9 giugno 2010

"Kobe Bryant Black Mamba" di Gloria Mattioni

Ha lo stesso soprannome di Uma Thurman (in "Kill Bill"), gioca nei Lakers di Los Angeles, a 31 anni ha già vinto 4 titoli Nba e guadagna 23 milioni di dollari a stagione. E se il basket non vi interessa, non importa: qui si parla del talento di realizzare i propri sogni (e far sognare)

Neanche un mese alle finali dei playoff di basket e a Los Angeles il termometro degli umori è impazzito. È tornato l'entusiasmo il 27 aprile, dopo la vittoria schiacciante dei Lakers contro la squadra di Oklahoma City. Partita epica (111-87), che li ha riportati in lizza come difensori del titolo. Questa storia però comincia prima, l'11 aprile, dietro le quinte di una partita invece persa, da dimenticare. Los Angeles contro Portland, Staples Center. Ma forse dovrebbe chiamarsi Kobe Temple, il tempio di Kobe. Una ragazza mi passa accanto sventolando un cartello: «Sono venuta da Cleaveland (città del rivale LeBron James, n.d.r.) per vedere il vero re dell'Nba». Un'altra, in coda al chiosco dei pop corn, abbassa le ciglia: «KO», dice la palpebra destra. «BE», conclude la sinistra. Intanto il cellulare continua a brillare, con gli sms delle amiche. «Toccalo. Ti prego. Fallo per me. Dimmi che è VERO». «Chiedigli di Vanessa, delle bambine». «Portami l'autografo o mio figlio non mi parlerà più». In effetti, preferirei cento volte guardare la partita da un posto in platea tra i fan, libera di emozionarmi, saltare in piedi e urlare, invece che dalla tribuna stampa in compagnia di stagionati, irreprensibili cronisti sportivi. Ma il dovere è dovere, e in fondo in platea ci sono stata, pochi mesi fa, per la partita mozzafiato contro Sacramento in cui Kobe infilò il canestro all'ultimo secondo utile (l'ha fatto già sei volte in questa stagione, tiro vincente e sirena finale).
Kobe Bryant ci piace. Molto. E non solo perchè, a trentun anni, ha già vinto quattro titoli Nba, è stato miglior giocatore nel 2008, due volte miglior marcatore, dodici volte All Star, medaglia d'oro alle Olimpiadi di Pechino. Kobe ci piace perchè fa sognare. Anche quelli a cui del basket non potrebbe importare di meno. Kobe sa sognare, ha realizzato il suo sogno. Senza bacchetta magica, ma con sudore e coraggio. Isolamento e ossa rotte.
Ma ritorniamo allo Staples, 11 aprile, dunque. Spogliatoio dei Lakers, prima della partita. Kobe, cuffie in testa e iPod nella tasca dell'accappatoio. Sparisce a farsi massaggiare per rappezzare i danni. Il ginocchio destro, sfasciato. Il gomito sinistro, anche. E poi l'indice della mano destra tanto massacrato da costringerlo a cambiare tecnica di tiro. Nell'armadietto ha lasciato calzini neri, maglione a striscie grigie e nere orizzontali, blazer nero e occhiali da sole enormi, neri. Nero, grigio, bianco. I colori che predilige quando non indossa l'oro e porpora della divisa dei Lakers.
Allo Staples (dove a tifare per lui vengono regolarmente Jack Nicholson, Denzel Washington, Cameron Diaz, Leonardo DiCaprio, i Red Hot Chili Peppers e così via) Kobe ci arriva regolarmente in Orange County in elicottero. Un lusso che può permettersi, con i 23 milioni di dollari di stipendio annuale. Cominciamo a parlare appena ritorna dal massaggio. Capisce l'italiano benissimo, grazie ai sette anni trascorsi in Italia quando suo padre, Joe "Jellybean", giocava nel nostro campionato (a Pistoia e poi a Reggio Emilia).
Per cominciare gli chiedo di autodefinirsi con un aggettivo. «Insaziabile. Sono sempre stato affamato di risultati. La motivazione al successo l'ho dentro. Da sempre». Quando parla, ti guarda fisso negli occhi. «È stata la pallacanestro a definire la mia vita. Ho ancora e sempre bisogno di approfondire, di raffinare la mia abilità trasferendo nel gioco tutto ciò che ho imparato come uomo. Perchè adoro vincere. Ne ho un bisogno quasi fisico. Ma non farei così tanti sacrifici solo per mettermi al dito un anello (il trofeo per chi vince l'Nba, n.d.r.) e andarmene in pensione imbottito di dollari. Non riuscirei a giustificare il tempo che porto via alle mie figlie. Quello che mi definisce è la volontà di raggiungere gli obiettivi con passione». Ammette di non prenderla bene neanche quando Vanessa, sua moglie, lo batte a Cranium, il gioco da tavola. «Kobe vuole essere il migliore. Alcuni lo trovano arrogante», dice Tex Winter, l'allenatore stratega dell'attacco a triangolo, che conosce Kobe dal 1999, quando Winter arrivò ai Lakers al seguito di Phil Jackson. «Ma soltanto perchè si rifiutano di vedere che cosa ha dentro».
Quello che Bryant ha dentro, viene da lontano. Dalla sua biografia sappiamo che nel 1989, a undici anni, viveva a Reggio Emilia. «E già sfidava chiunque nell'uno contro uno: era convinto di vincere», ricorda Brian Shaw, oggi assistente allenatore dei Lakers, che in quegli anni giocò una stagione a Roma. Ecco quello che successe in seguito: tre anni dopo Kobe torna a Philadelphia, dov'è nato, ed entra nella squadra della Lower Merion High School. Si alza alle cinque del mattino per allenarsi e rimane in palestra anche di sera, mentre i suoi compagni di scuola pensano al proprio look e alle ragazze. Vince il titolo statale e batte il record di punti segnati, che era stato stabilito dal leggendario Wilt Chamberlain. Poi, senza passare dal college, arriva la chiamata dell'Nba. Viene scelto dai Charlotte Hornets e ceduto subito ai Lakers, che prima di ingaggiarlo lo sottopongono a un provino: di fronte a lui Michael Cooper, uno dei migliori difensori della storia della Nba. Kobe se lo mangia. Secondo Jerry West, all'epoca general manager: «Il ragazzo ha più talento di qualsiasi altro giocatore». Continua così la leggenda delle sfide di Kobe. Uno contro uno, sfrontato e convinto di vincere sempre.
Anche ora che è un divo affermato, si alza alle sei ogni mattina, l'ora in cui altri suoi colleghi tornano a casa dai party. «Preparo la colazione alle bambine, le faccio ridere». I nomi di Natalia e Gianna, sette e tre anni, sono tatuati sotto quello della loro mamma, sul deltoide destro. Già, Vanessa, una presenza costante accanto al marito: si conobbero quando lui aveva 21 anni e lei 17, nello studio di registrazione dove lei ballava per un video musicale e lui, stella nascente dei Lakers, avrebbe dovuto registrare un album di rap che poi non venne mai fatto. Uscirono insieme per pochi mesi: Vanessa dovette finire l'high school privatamente, per evitare i paparazzi. Poi il matrimonio, nonostante la "scomunica" dei Bryant, che ritenevano lei troppo giovane per sposarsi. Ma quando nacque la prima bambina, ritornò l'unità familiare.
«Siamo in pace», sintetizza oggi lui. Pace? E il Kobe che vuole la guerra? Quello che solo la battaglia può placare l'insaziabilità? Fuori dal campo, spiega, è un altro, è proprio questa "pace" a ricaricarlo, rendendolo il guerriero invincibile del parquet.
Continuiamo la nostra conversazione alla fine di una partita frustrante. Kobe è deluso ma "incassa" con classe. Sa perdere, come i veri campioni. Gli racconto che in Italia circola una leggenda: dicono che alle elementari firmasse autografi ai compagni di scuola, sostenendo che un giorno sarebbero valsi una fortuna.
Ride. «Dicevo a tutti che avrei giocato nella Nba e sarei diventato un grande campione. Ma loro mi prendevano in giro. Ero l'unico ragazzino nero della mia scuola, e del mio quartiere, già fissato per il basket. Mi allenavo da solo, imitando le mosse che avevo visto in televisione e visualizzando il mio sogno: infilare i canestri della vittoria nei secondi finali, con gli spettatori che esultano gridando il mio nome. Il pallone da basket era il mio unico vero amico».
Trant'anni dopo, Kobe è orgoglioso del suo soprannome, Black Mamba (lo stesso di Uma Thurman in Kill Bill), e racconta: «La consapevolezza "black" per me è arrivata tardi. Essendo cresciuto in Italia, non credevo che la nostra gente potesse identificarsi con me. Poi arrivarono i momenti difficili (nel 2003 fu accusato di violenza carnale da un'impiegata d'albergo del Colorado: il caso venne poi dichiarato nullo dal tribunale, senza processo, n.d.r.) e proprio allora ebbi enormi manifestazioni di sostegno dalla comunità nera. Così mi sentii ancor più motivato nella mia parte di role model».
Gli chiedo che cosa vuol dire esattamente per lui. «Secondo me significa essere capace, e voler influenzare gli altri, a dare il meglio di se stessi. Un atleta di successo è nella posizione ideale per ispirare gli altri. Dobbiamo essere eroi, nella sconfitta come nella vittoria: tutto si svolge in diretta, sotto gli occhi degli spettatori, senza editing. Ci guardarono superare ostacoli, infortunarci e fare cose "impossibili". Cadere e rialzarci: il senso della vita. È quello che noi atleti possiamo fare anche fuori dal campo: aiutare a ricostruire altre squadre. Rafforzare la fiducia delle persone, ispirarle e osare l'impossibile».

Articolo del 15 maggio 2010
Un ringraziamento a Sofia Saponi e a Elisa Campana.


Nessun commento:

Posta un commento