martedì 15 giugno 2010

"Rolando Blackman Mr. Classe" di Pietro Scibetta

È stato per 13 stagioni una stella NBA, ha disputato 4 All-Star Game, è il miglior marcatore nella storia dei Mavericks e ha giocato nella nazionale Usa. Poi Rolando Blackman è venuto un anno in Italia e ha subito vinto lo scudetto. Non certo un caso.

Stile, eleganza, classe, carisma. Sono parole che si sposano perfettamente per definire idealmente un signore del parquet come Rolando Blackman.
Pulito ed efficace da giocatore, concreto e grintoso quando lavora in palestra, ora è "Director of Basketball Development" dei Dallas Mavericks e partecipa anche a camp di livello internazionale come l'ultimo RBK Eurocamp di Treviso.
Diciamo, anzi, che per il ruolo di allenatore sembra proprio avere il cosiddetto "physique du rôle".
"Il mio approccio al lavoro è sempre molto intenso - dice - mi piace entrare in campo carico, con la voglia di insegnare per trasmettere ai giocatori quella di imparare. Soprattutto insisto con i fondamentali: se hai talento e aggiungi dei buoni fondamentali, diventi un giocatore pericoloso".
Impossibile dargli torto, questo è l'abc di ogni allenatore che si rispetti.
E forse avrebbe da insegnare anche la cosiddetta "attitudine": parliamo di un personaggio da 18.0 di media in carriera in NBA, con una punta di 22.4 nella stagione 1983-84 in maglia Mavericks.
Guadagnava 255.000 dollari lordi - e se pensiamo che oggi per quella cifra firmerebbe per una formazione di medio livello in Serie A o per una squadra forte di LegaDue e che Marbury percepirà 40 e passa milioni di dollari nei prossimi due anni a New York, ecco, allora si ha davverlo la percezione di quanto il mondo sia cambiato.
Di "attitudine" ne ha avuta parecchio bisogno, come dice lui stesso, perchè quando ha deciso di porre fine a una esperienza NBA durata tredici stagioni, Blackman varca l'Oceano per approdare prima all'AEK Atene e successivamente, anno di grazia 1995, in Italia con l'allora ambiziosa Olimpia Milano, targata Stefanel.
Bei tempi?
"L'annata che vissuto a Milano è stata una delle più belle e intense della mia vita. Ho avuto come compagni dei grandissimi giocatori ma soprattutto delle persone eccezionali. Certo, venire in Europa è stata dura perchè ho dovuto lavorare su un modo diverso di posizionarmi sul campo e perchè ho dovuto imparare delle nuove regole, su tutta quella dei 'passi' [cosa comune, per la verità, a tutti gli americani d'Europa, ndr]. Riuscire ad adattarsi, sia per un americano in Europa che viceversa, è una questione di atteggiamento e di predisposizione a imparare".
Lo sa, Rolando, che quella fu l'ultima stagione in cui Milano ha vinto lo scudetto [conclusa da lui con 14.9 punti e il 41.6% da tre in 40 partite]?
"Certo, e ricordo con grande piacere i campioni con cui ho giocato: Nando Gentile, Gregor Fucka, Dejan Bodiroga, un tiratore straordinario come Flavio Portaluppi, un allenatore eccezionale come Bogdan Tanjevic: urlava spesso e volentieri ma il basket lo conosce, ho un grande rispetto per lui come coach".
Quasi tutti hanno smesso, ormai.
"Già, e avrei voluto assistere all'ultima di Dejan e unirmi ai tifosi di Roma per la giustissima standing ovation che gli è stata riservata. Lui è un campione in tutti i sensi, un grande del gioco. Dovete sapere che quando scelsi di giocare a Milano sapevo bene con che giocatori avrei avuto a che fare, ho sempre chiesto molte informazioni prima di firmare. Ed è chiaro che la presenza di atleti di questo spessore mi ha fatto facilmente dire sì all'Olimpia".
Tanto facilmente che...
"Sarei rimasto volentieri a Milano, ma il nuovo coach [Franco Marcelletti, ndr] probabilmente non mi conosceva abbastanza e visti i tentennamenti dei dirigenti ho deciso di cambiare".
Per seguire proprio Tanjevic in Francia.
"Scelsi di firmare per Limoges con Boscia, ma fu un errore. C'erano dirigenti come John Dearman e Didier Rose che mi raccontarono un mucchio di bugie, davvero delle brutte persone. Credo che Rose sia andato anche in galera in seguito. Comunque, dopo sei settimane di discussioni decisi che ne avevo abbastanza".
Parliamo ancora del suo nuovo ruolo nei Mavs. Oltre ad aver fatto il telecronista, come detto, ora è a capo del programma di "Basketball Development", ovvero...
"Ho l'opportunità di poter lavorare con i giovani che un domani arriveranno nella NBA e trasmettergli la mia esperienza. Mi diverto a fare l'allenatore, perchè ho la possibilità di continuare a restare in un mondo, quello del basket, che ho amato tantissimo per tutta la mia vita. Viaggio per tutto il mondo per conto dei Mavericks e vado a vedere i migliori talenti; il lavoro mi permette sia di stare sul campo che di occuparmi degli aspetti più legati al business della mia squadra".
Nel nome del caro, vecchio "global game".
"Credo che sia meraviglioso avere in NBA tutti questi giocatori giovani che arrivano da tutto il mondo a offrirci il loro talento, come Dirk [Nowitzki], Yao Ming e Andrea Bargnani. Il loro arrivo ha costretto gli americani, anche i giocatori, a pensare che non conta solo il fatto di essere nati a New York per poter ambire a essere giocatori importanti. Magari esiste un piccolo paesino in una nazione semisconosciuta dove cresce un ragazzo che è più forte di te".
Parliamo della NBA dei giorni nostri.
"A Dallas lavoriamo per vincere, anche se ovviamenti ci dobbiamo riprendere dal colpo da KO subito da Golden State negli ultimi playoff, che è spiegabile per una serie di fattori. Primo fra tutti il fatto che si trattava di una squadra che ci aveva creato problemi già in regular season, una struttura molto particolare. Poi forse siamo arrivati ai playoff con giocatori troppo riposati, fuori tensione agonistica. Le ultime gare di regular season abbiamo lasciato spazio a chi aveva giocato meno durante l'annata, un errore che non commetteremo di nuovo. Stavolta terremo tutti sempre carichi a livello mentale".
Anche perchè, in Texas, avete San Antonio che continua a guardarvi dall'alto in basso.
"Bisogna essere onesti: per tutti coloro che amano il gioco, San Antonio è una squadra fantastica, un modello da seguire. Giocano una difesa organizzata e intensa, muovono la palla, giocano dentro e fuori, si appoggiano su un grande lungo come Duncan e possono contare sull'imprevedibilità di Ginobili. Hanno giocatori intelligenti e preziosi come Bowen. Insomma, sono fortissimi".
Dicono che sono noiosi, però.
"Non è che tutti possono giocare come i Lakers di Magic Johnson - e poi il bel basket non è solo quello dello Showtime. A me loro piacciono per la consistenza e la solidità che sprigionano, alla fine bisogna intendersi su dove si vuole arrivare".
In che senso?
"Beh, se vuoi finire su quealche poster con una schiacciata basta poco, ma il discorso cambia se vuoi arrivare a baciare un trofeo".
Insomma, caccia agli Spurs!
"Dobbiamo tenere d'occhio tutti, per evitare altri scivoloni come contro Golden State. Ma quelli da battere sono loro".

Da "Dream Team" del Gennaio 2008.

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